Recovery Fund, ci siamo!

Il 21 luglio 2020 verrà ricordato, nel bene e nel male, come un giorno storico.
L’Unione batte un colpo e dimostra di esserci tramite i suoi Stati membri, che hanno operato in seno al Consiglio europeo, ed hanno raggiunto un accordo sul Recovery Fund, uno strumento finanziario proposto – su richiesta dei Capi di Stato o di Governo – della Commissione europea e volto a fronteggiare gli effetti della crisi pandemica di COVID-19.

Il risultato conseguito durante l’ultima riunione straordinaria del Consiglio europeo, tenutosi tra il 17 e il 21 luglio, non era affatto scontato, non in così “breve” tempo almeno, considerata l’opposizione mostrata, negli ultimi mesi, da alcuni Stati membri – i cosiddetti “Paesi frugali” – circa la sua portata e la sua struttura.
Il record di durata per un summit del Consiglio europeo stabilito in occasione delle trattative che hanno portato alla Carta di Nizza è stato ampiamente battuto. Questo perché il modus operandi intergovernativo che caratterizza il Consiglio europeo raramente prevede riunioni ad oltranza che si protraggono fino al raggiungimento di un accordo, preferendosi rinviare continuamente le decisioni più rilevanti per mesi e mesi.

Stavolta no, stavolta non era possibile. Stavolta serviva una risposta forte ad ogni costo (o whatever it takes, se si preferisce), lo chiedevano i 446 milioni di cittadini europei.
Per la prima volta i 27 Stati membri hanno deciso di impegnarsi ad emettere debito comune, garantendo e, conseguentemente, accollandosi il relativo rischio finanziare la ripresa.

Formalmente non siamo parlando degli, ormai famigerati, Eurobond. I 27 hanno preferito cambiarne la nomenclatura, ormai divenuta spauracchio di molti Paesi UE, ma la sostanza resta molto simile.

Cosa prevede l’accordo?

La proposta iniziale Commissione europea prevedeva un ammontare complessivo di fondi pari a 750 mld di euro, di cui 500 a titolo di sussidi a “fondo perduto” – dai quali vanno però sottratti quelli che ogni Stato membro versa nelle casse comuni – e 250 a titolo di prestiti. Ritenere una tale proposta venisse accettata sic et simpliciter era, a voler essere generosi, troppo ottimistico, nonostante la proposta di 500 mld già suggerita dall’asse franco-tedesco.

Non era pensabile che Stati membri culturalmente ed ontologicamente distanti dal concetto di sussidio a fondo perduto prestassero agevolmente il fianco al più grande sussidio della storia dell’Unione Europea senza colpo ferire. Non era pensabile che questi abbandonassero la loro – va detto, giustificata – diffidenza nei confronti delle politiche economiche di alcuni Paesi UE del sud (di cui l’Italia risulta essere tristemente capofila).

Era auspicabile, invece, che dalle proposte degli uni e dalle resistenze degli altri, nascesse un accordo di compromesso che avrebbe accontentato un po’ tutti, ma che non avrebbe soddisfatto del tutto gli interessi delle parti.

Secondo quanto deciso durante nell’ultimo Consiglio europeo, la quota di contributi a fondo perduto scende da 500 a 390 mld di euro, mentre quella dei prestiti sale da 250 a 360 mld, lasciando invariato a 750 mld l’ammontare complessivo.

Un altro nodo gordiano che andava sciolto riguardava il controllo sull’utilizzo di queste risorse. Per i “Paesi frugali” – Olanda, Danimarca, Svezia e Austria – il controllo avrebbe dovuto estrinsecarsi in un vero e proprio diritto di veto sui progetti di riforma e di investimento da presentare ai fini dell’ottenimento dei fondi. Un livello di ingerenza sulle scelte politiche che mal si abbina con quei valori di fiducia, solidarietà e leale collaborazione che sono alla base del progetto europeo.

Purtuttavia, il meccanismo che ha reso possibile l’accordo prevede che i piani presentati dagli Stati membri dovranno, dapprima, essere valutati dalla Commissione europea, e successivamente approvati dai Paesi UE, in sede di Consiglio europeo, a maggioranza qualificata.

A questo si aggiunga quello che in queste ore è stato definito “freno d’emergenza”, e cioè un meccanismo tramite il quale uno o più Stati membri hanno la possibilità di bloccare i pagamenti in favore del Paese richiedente e attivabile “[…] Qualora, in via eccezionale, uno o più Stati membri ritengano che vi siano gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali, possono chiedere che il presidente del Consiglio europeo rinvii la questione al successivo Consiglio europeo” (Capo I, sezione A19, comma 4 delle Conclusioni della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 17, 18, 19, 20 e 21 luglio 2020). Per addivenire ad un accordo è stato necessario assecondare i succitati frugali anche riguardo all’entità dei rimborsi che, in quanto contributori netti, spettano loro.

Cosa significa per l’Italia?

Per l’Italia è senza dubbio una vittoria che non ha precedenti e che dovrà essere capitalizzata nel migliore dei modi, per rendere finalmente il nostro Paese una potenza moderna, digitale e soprattutto green. Arriveranno tanti miliardi – circa 208, pari al 28% del totale – da poter spendere, ma la vera sfida sarà utilizzarli nel modo corretto.
Proprio su questo punto si è riscontrata la feroce opposizione dei “frugali”, che più che temere che i fondi fossero troppi, temevano che andassero a finire nelle mani sbagliate o che sparissero magicamente ad un certo punto, come spesso accade per i fondi strutturali.

È indubbio come questa sia una vittoria politica con pochi altri eguali nella storia recente. Portare avanti un negoziato affatto agevole e riuscire ad ottenere la quota più rilevante di fondi, senza diritto di veto ed a condizioni favorevoli, è un risultato di cui il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, può andare fiero. Ora l’Italia non ha più scuse e deve portare avanti quelle riforme che si aspettano da decenni.

Luci e ombre

Nonostante lo storico risultato raggiunto, l’ultima riunione del Consiglio europeo ha mostrato ancora una volta tutti i limiti del sistema intergovernativo che caratterizza il genus delle Organizzazioni Internazionali tipiche, ma che, in una Organizzazione di stampo completamente nuovo come l’Unione Europea, avrebbe dovuto essere abbandonato, o perlomeno, essere molto marginale. La realtà è che tale sistema è il vero limite ad un’azione efficace dell’UE, condizionata troppo spesso dalla reticenza di alcuni – o, peggio, singoli – Stati membri che si oppongono a proposte o provvedimenti che sarebbero cruciali per il processo di integrazione europea.

Questo ha condotto i negoziati verso un compromesso difficilmente tollerabile. Faceva, infatti, parte dell’originaria proposta franco-tedesca la clausola che condizionava l’accesso al Recovery Fund al rispetto dell’art. 2 TUE. Ci si vuol riferire, chiaramente, al rispetto del rule of law (stato di diritto nella versione italiana del Trattato) e dei principi posti a fondamento dell’Unione.Non a caso Ungheria e Polonia, ça va sans dir, hanno immediatamente manifestato il loro dissenso riguardo a tale previsione, ed hanno ottenuto che il controllo sullo stato di diritto avvenga, sostanzialmente, pro forma.

È lapalissiano come ormai una profonda riforma delle Istituzioni europee, che dia assoluta centralità al Parlamento – unica tra le Istituzioni ad essere espressione della volontà popolare – e che elimini definitivamente il sistema intergovernativo dal panorama europeo, sia ormai improrogabile.

Una nuova governance?

La vera partita, però, potrebbe essersi giocata sul piano della governance. Sebbene l’asse franco-tedesco abbia determinato per decenni le sorti e gli indirizzi politici dell’intera Unione, per la prima volta, è stato sfidato e – almeno in parte – battuto. In seno al Consiglio europeo sono emerse delle profonde spaccature, che forse segnano l’inizio della definizione di nuovi equilibri di potere tra i 27, che non è detto siano migliori dei precedenti.

I frugali, consci del loro forte potere contrattuale, hanno imposto l’andamento delle trattative, ed hanno rischiato più volte di far saltare le negoziazioni, qualora non fossero stare accolte le loro richieste. Hanno giocato d’azzardo, correndo il rischio di accollarsi la responsabilità di un eventuale mancato raggiungimento di un accordo. Un rischio che però ha pagato, e che adesso pone un forte interrogativo sulla solidità leadership franco-tedesca, che pure in questa occasione ha abbandonato il fronte dei rigoristi – fattore, questo, di grande novità – per schierarsi a fianco dei Paesi mediterranei, e che forse esce da questa riunione straordinaria un po’ indebolita.

Il 21 luglio 2020, tra qualche anno, potrebbe essere ricordato come un giorno storico, un giorno in cui l’UE ha saputo reagire con forza ad una crisi senza precedenti, ma, soprattutto, come il giorno in cui assunto una nuova balance of power.

Link per la consultazione: https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-10-2020-INIT/it/pdf

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