Domenica primo ottobre si è svolto nella regione autonoma della Catalogna, il referendum sull’indipendenza dalla Spagna. Il quesito posto ai catalani sulla scheda elettorale era molto semplice: “Vuoi tu che la Catalogna diventi uno Stato indipendente?”. Di quella giornata però, hanno fatto molto più scalpore le immagini di violenza esercitata dalle forze dell’ordine nei confronti dei catalani. Presentando in questi termini la situazione, saremmo spontaneamente portati a schierarci a favore di quei catalani indipendentisti che non hanno potuto esercitare il loro diritto di voto. Questo però è solo il lato più emotivo e pasionario di una faccenda che bisogna analizzare sotto diversi punti di vista, se si vuole formulare una interpretazione obiettiva di ciò che è successo quel giorno e di ciò che potrebbe accadere – visti gli sviluppi del 10 ottobre e l’odierno scambio di missive tra Mariano Rajoy e Carles Puigdemont.
Quello catalano era un referendum che non solo non aveva ricevuto l’approvazione dall’Esecutivo di Madrid, ma che, soprattutto, era stato dichiarato incostituzionale dai giudici spagnoli, dal momento che l’articolo 2 della Costituzione emanata nel 1978 – in cui viene comunque garantito il «diritto all’autonomia delle regioni e delle nazionalità che la compongono» – si basa sulla «indissolubile unità della nazione spagnola».
Nelle scorse settimane tra il Governo di Madrid e il Governo catalano della Generalitat si è raggiunto un livello più alto di tensione, in un braccio di ferro che va avanti ormai da anni. Nonostante il sequestro di materiale elettorale per impedire la votazione, il Governo catalano aveva dichiarato che, in un modo o nell’altro, la consultazione referendaria ci sarebbe stata. E così è accaduto. Chi è riuscito a votare lo ha fatto in qualunque seggio e addirittura stampando la propria scheda elettorale a casa. Con queste premesse, è lecito avere fortissimi dubbi sull’effettiva validità del risultato di un voto già dichiarato illegale dall’inizio, e con il quale circa il 90% dei votanti – ma appena il 41% degli aventi diritto, secondo i dati forniti dal Governo catalano – si è dichiarato favorevole all’indipendenza dalla Spagna. Si tratta di numeri discutibili, in quanto forniti dagli organizzatori senza alcun censo e controllo, e che – come fatto notare anche dal Financial Times – non sarebbero comunque in grado di legittimare una eventuale dichiarazione d’indipendenza.
Non tutti gli indipendentisti sono catalani ma soprattutto non tutti i catalani sono indipendentisti, e, infatti, i socialisti della Catalogna sono stati contrari al referendum fin dall’inizio, perché violava la Costituzione spagnola. Numerose sono state infatti sia a Madrid che a Barcellona, soprattutto nei giorni successivi al referendum, le manifestazioni di chi era contrario a una scissione, i cosiddetti “unionisti”.
Ma da dove arriva allora tutta questa voglia di ribellarsi a Madrid? I partiti indipendentisti catalani potrebbero essere assimilati ai tanti partiti populisti presenti in Europa. Seppur in un territorio circoscritto come quello della Comunità autonoma, anche i partiti indipendentisti hanno giocato con il “sentire” del corpo elettorale catalano, che da anni avverte tutto il peso della crisi economica e della corruzione della classe politica. Si è costruita negli anni l’immagine di un Governo spagnolo che impone una tassazione sproporzionata alla regione catalana che, consapevole della sua ricchezza, manterrebbe – in nome del principio costituzionale della solidarietà – le regioni più povere della Spagna. La carta dell’indipendenza territoriale è stata giocata come l’unica soluzione possibile anche al risanamento del bilancio: la Catalogna è, infatti, tra le regioni spagnole, la più indebitata. I cittadini catalani, quindi, hanno avvertito come distante dalle loro reali esigenze il Governo centrale di Madrid, la cui inerzia negli anni è stata determinante per la situazione disastrosa che incontriamo oggi in Catalogna. I partiti indipendentisti catalani, invece, hanno saputo raccogliere il risentimento e lo sdegno popolare, utilizzandolo per legittimare dal basso un’indipendenza – e una diversità – che per anni, nel corso della dittatura franchista, è stata oppressa. E, nell’assoluta fermezza di «applicare la legge a tutti i costi» mostrata dal presidente del Governo Mariano Rajoy, non è stato difficile per gli indipendentisti catalani strumentalizzare quelle immagini di violenza, dove il braccio forte della legge che ostacola il diritto di voto ha subito ricordato i bavagli del regime franchista.
Un dato che bisogna evidenziare è che ad avvicinarsi ai partiti indipendentisti sono stati soprattutto i giovani. Verrebbe da chiedersi quanto abbia influito su questo il sistema scolastico spagnolo, in cui lo Stato centrale delega la gestione di numerose materie – tra cui l’istruzione – proprio alle rispettive Comunità autonome.
Analizzando la questione da un punto di vista internazionale, dell’autodeterminazione di un popolo oppresso vi è però ben poco. Infatti nel diritto internazionale, non si menziona un vero e proprio “diritto alla secessione”, dal momento che è ferma la volontà di salvaguardare e proteggere la sovranità degli Stati. Il diritto internazionale – cui più volte il Governo della Generalitat ha fatto riferimento – legittima l’autodeterminazione dei popoli solo in tre casi: quando ci si trova dinanzi a un dominio di tipo coloniale; nel caso di occupazione straniera o se le minoranze all’interno di uno Stato vedano di fatto ostacolato l’accesso all’esercizio effettivo del potere. Nessuno di questi casi riguarda la Catalogna. Inoltre, dichiarare l’indipendenza – come è stato fatto lo scorso 10 ottobre – non comporta automaticamente la nascita di un nuovo Stato. Infatti per diventare soggetto di diritto internazionale, uno Stato ha bisogno di due elementi costitutivi fondamentali: l’indipendenza o sovranità esterna – e quindi è indipendente solo «lo Stato il cui ordinamento trova fondamento nella propria Costituzione, e non nell’ordinamento giuridico di un altro Stato»; il secondo elemento basilare riguarda invece l’effettività, ossia il controllo e l’esercizio effettivo del potere su un determinato territorio. Requisiti che la Catalogna non possiede.
Il dissidio tra Madrid e Barcellona è perciò un problema interno alla Spagna, ed è principalmente per questo che l’Unione Europea e i leader politici europei hanno mantenuto un comportamento cauto e silenzioso, giustificato dal fatto che, trattandosi di un referendum non autorizzato e quindi al limite del legale, il rispetto dello Stato di diritto e della Costituzione spagnola restavano gli unici valori indiscutibili. Non si può però pensare che l’indipendenza catalana – i cui effetti, stando alle dichiarazioni di Carles Puigdemont lo scorso martedì 10 ottobre, sono stati soltanto posticipati – non avrà conseguenze, anche e soprattutto in riferimento all’Unione.
Le conseguenze post-voto non si sono fatte attendere. L’indice IBEX ha registrato qualche giorno dopo il referendum il suo peggior risultato dai tempi della votazione per la Brexit e molte sono le banche – ad esempio Banco Sabadell e Caixa Bank – e le filiali di imprese estere che hanno trasferito o stanno trasferendo la loro sede legale dalla Catalogna ad altre località della Spagna.
E veniamo all’Unione Europea. Potrebbe mai esserci spazio in Europa per un ipotetico Stato catalano? La questione è molto delicata e va affrontata alla luce degli sviluppi di martedì 10 ottobre, quando la dichiarazione d’indipendenza da Madrid, più volte minacciata, è arrivata. Il governatore della Generalitat, Carles Puigdemont, ha difatti dichiarato l’indipendenza ma ne ha sospeso però gli effetti per qualche settimana, per cercare di giungere a una “soluzione concordata” con l’Esecutivo di Madrid. Nell’ipotesi puramente teorica che davvero la Catalogna riuscisse a ottenere l’indipendenza senza nessun tentativo di reazione da parte di Madrid, l’ingresso in Europa della Comunità autonoma non potrebbe essere immediato. La Catalogna si troverebbe fuori dall’Unione Europea, con gravi rischi e ripercussioni soprattutto a livello economico. Perderebbe, in quanto Stato terzo all’UE, l’accesso al Mercato unico, pertanto sulle esportazioni catalane – verso la Spagna e verso il resto d’Europa – graverebbero i dazi europei. Inoltre, la possibilità di negoziare un accordo di libero scambio con l’Unione potrebbe richiedere anni e non sarebbe scontata la ratifica da parte di tutti gli Stati membri – il processo di adesione prevede, infatti, non solo l’approvazione all’unanimità da parte del Consiglio dell’UE, ma anche quella del Parlamento europeo. Considerato l’accaduto, il veto spagnolo sarebbe scontato. Ci si troverebbe, quindi, di fronte a un paradosso: per esistere in Europa, per aderire all’Unione, la Catalogna necessiterebbe del consenso dello Stato dal quale vuole separarsi: la Spagna.
Entro le 10 del 16 ottobre a Madrid si aspettavano ulteriori chiarimenti circa la proclamazione dell’indipendenza. Chiarimenti che non sono mai arrivati, dal momento che il Governatore catalano Puigdemont, in una nuova circolare ha invitato nuovamente il Governo di Madrid al dialogo, proponendo due mesi di trattative. Mariano Rajoy ha risposto chiedendo una volta per tutte «chiarezza sull’entrata in vigore dell’indipendenza» e fissando l’ennesimo ultimatum per il Governo catalano alle ore 10 di giovedì 19 ottobre, «per rientrare nella legalità e dare una risposta chiara alla popolazione». Il capo del Governo spagnolo ha inoltre affermato che «aprire un nuovo periodo di lealtà istituzionale» spetta soltanto a Puigdemont, che, in caso contrario, verrà ritenuto «l’unico responsabile dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione», che prevede la sospensione dell’autonomia regionale. In merito, la vice-presidente del Governo spagnolo, Saenz de Santamaria, ha precisato durante una conferenza stampa che l’articolo 155 non si applicherà «per sospendere l’autogoverno» della Comunità autonoma, bensì per fare in modo che lo stesso «venga esercitato secondo le leggi presenti sia nella Costituzione che nello Statut regionale catalano».
In attesa quindi di ulteriori sviluppi, quello che ci si aspetta è che comunque le parti possano giungere a un accordo in tempi brevi. D’altronde lo stesso presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha auspicato che la questione tra Madrid e Barcellona si possa risolvere attraverso il dialogo, poiché «la forza del ragionare è sempre più forte della ragione della forza».
La vera grande sfida, non solo per l’Esecutivo di Mariano Rajoy, ma anche per i partiti tradizionali spagnoli, resta, però, quella di ristabilire la connessione empatica – che manca ormai da tempo – tra cittadini e politica. Manca, per l’appunto, il dialogo. La politica non sa più parlare, non è più in grado di comunicare appassionando e coinvolgendo il cuore e le teste dei veri protagonisti delle istituzioni, ossia i cittadini. Ed è proprio questo vuoto che viene riempito dalla manipolazione di indipendentisti, nazionalisti, o, più comunemente, populisti. Nel caso iberico – che si spera faccia da monito anche per gli altri Paesi europei – il risultato è stato quello di una società catalana divisa in due: se la politica attraverso la questione dell’indipendenza è riuscita a coinvolgere di nuovo i cittadini, lo ha fatto causando gravi frammentazioni nella società. A pagare il prezzo della “non-indipendenza” catalana sono stati ancora una volta i cittadini, che, nello schierarsi o meno, hanno minato anche rapporti familiari e d’amicizia. Forse, se la classe politica fosse stata più prudente e meno irresponsabile, tutto questo, almeno, si sarebbe potuto evitare.