Ri-partire dopo Brexit: il cuore dell’Europa continua a battere

Esce zoppicante l’Europa dal vertice di Bruxelles che ha segnato una svolta nella storia del Continente. C’è chi lo chiama divorzio, chi funerale, l’accordo di recesso del Regno Unito approvato dall’UE domenica 25 Novembre, dopo un anno e mezzo di negoziati.

Contrariamente alle previsioni si tratta di un divorzio – sempre per usare la metafora coniata da Michel Barnier, capo negoziatore UE per la Brexit, – piuttosto amichevole, che non ha diviso l’Europa più di quanto non abbia fatto la Brexit stessa. Ce lo ripete proprio Barnier in visita a Roma, dove ha tenuto il 27 novembre scorso, un’audizione dinanzi alle Commissioni Esteri e Politiche UE di Camera e Senato: “Questo raggiunto sulla Brexit è il migliore e l’unico accordo possibile”.

Tuttavia, pur avendo raggiunto compromessi e una prospettiva di futuri rapporti amichevoli con il Regno Unito, non si può cantare vittoria. Per l’UE questa rimane una grande sconfitta e la conferma della sua fragilità. Evidentemente, l’Europa non ha saputo dare risposte e soluzioni adeguate al popolo britannico o, perlomeno, a una sua parte; la stessa che due anni fa ha votato Leave al referendum.

È un negoziato lose-lose”, dice ancora Barnier, “in cui perdono tutti”. I temi discussi con i deputati e senatori italiani sono tantissimi e altrettanto numerose sono le pagine del Trattato (circa seicento).

Il primo punto è quello inerente ai diritti dei cittadini: “Con Brexit non ci sarà più la libera circolazione tra l’UE e la Gran Bretagna. È proprio una delle ragioni per cui i britannici hanno voluto la Brexit”. Se è vero però che la Gran Bretagna lascerà ufficialmente l’Unione Europea il 29 Marzo 2019, è anche vero che fino al 31 Dicembre 2020 è previsto un periodo di cosiddetta transizione. I milioni di cittadini britannici residenti nel Continente e gli oltre tre milioni di cittadini europei che lavorano nel Regno Unito, potranno continuare a beneficiare degli stessi diritti. Questo varrà anche per tutti coloro che sposteranno la propria vita tra Regno Unito e UE (o viceversa), entro la fine del periodo di transizione.

Poi c’è l’altra questione, che riguarda una più complicata gestione della circolazione, quella tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Si è sentita la necessità di impedire la creazione di un confine “duro” che compromettesse la pace raggiunta nel 1998. A tal proposito si è deciso di adottare una clausola di salvaguardia, il “backstop”, che dovrebbe garantire un confine aperto anche dopo il periodo di transizione. Nel frattempo, ci saranno negoziazioni per il futuro trattato commerciale tra UE e Regno Unito che, si spera, dovrebbe risolvere anche le questioni che Brexit lascia aperte con la Repubblica d’Irlanda. Se ciò non dovesse accadere, ecco che una clausola di garanzia rimane fondamentale. Nello specifico, essa prevede che l’Irlanda del Nord rimanga allineata ad alcune regole europee per quel che riguarda la circolazione delle merci. È chiaro che, evitando un controllo doganale e un rafforzamento delle barriere di confine, di fatto il Regno Unito rimane, in qualche modo, ancora legato all’Unione Europea.

L’accordo su Brexit stabilisce inoltre gli impegni finanziari di cui Londra dovrà farsi carico per uscire dall’UE. La cifra non compare nel testo, ma questo divorzio costerà agli inglesi almeno 39 miliardi di sterline (circa 45 miliardi di euro).

Molto suggestiva è l’immagine che Il Sole 24 Ore (in un articolo di pubblicato il 3 maggio 2018 da Adriana Cerretelli) offre di questa situazione: “Il buco di Brexit sgonfia l’Europa”. Ovviamente il riferimento è rivolto all’aspetto finanziario: ora abbiamo meno risorse. Brexit lascia inevitabilmente un profondo vuoto nel bilancio dell’Europa. Non è un caso che, presentando la proposta di bilancio della Commissione europea per il periodo 2021-2027, il presidente della Commissione, Jean-Claude Junker abbia dichiarato: “Il nuovo bilancio rappresenta l’occasione per plasmare una nuova, ambiziosa Unione a 27. Un piano pragmatico su come fare di più con meno.” La strategia è quella di un bilancio moderno; un bilancio “che protegge, da forza e difende”; un bilancio che opererà riassegnazioni e tagli dove si può per concentrarsi sulle priorità che l’Unione dovrà mantenere e rinforzare.

Un fiducioso tentativo di tenere in equilibrio quello che rimane di un’Europa che non è stata in grado di creare una cornice adatta alle nuove sfide della realtà contemporanea. Ciò che infatti fa più paura è uno “sgonfiamento” dal punto di vista non solo finanziario, ma anche ideale. Viene difatti a mancare – e questo non solo nel Regno Unito, ma in molti degli Stati membri – l’idea di Unione come progetto indubitabile e necessario, mentre fa capolino quella contraria, ossia che se ne può fare a meno. Fin quando era la Grecia a “essere sul pianerottolo”, i segni non erano così evidenti. Ma ora si tratta del Regno Unito, lo stesso Paese che,  lottando con forza contro l’imperialismo nazista che stava ricoprendo il vecchio Continente, aveva dichiarato che “gli inglesi non si sarebbero mai arresi”.

L’augurio è che il “buco” lasciato dalla Gran Bretagna non diventi una voragine; un buco nero in grado di inghiottire tutte le buone ragioni che hanno dato vita alle Comunità europee prima, all’Unione Europea poi. “Uniti siamo più forti”, era questa l’essenza del progetto di Europa unita nato all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando due grandi poli – USA e Unione Sovietica – divennero protagonisti di una guerra mai frontale, ma pur sempre spietata. Nel mezzo gli Stati dell’Europa, minacciati se disgregati, più forti se uniti. Ora l’Europa è debole e deve cavarsela come meglio può, accerchiata dalle stesse due potenze e da altre emergenti. In pochi vogliono ancora entrarci, altri sembra vogliano uscirne.

È necessario dare un nuovo slancio che impegni tutti i Paesi europei a comprendere che oggi più che mai abbiamo bisogno di Europa. Citando il filosofo Massimo Cacciari (intervenuto il 30 Novembre alla trasmissione Otto e mezzo): “L’Europa non è cenere, è una casa che deve essere riformata, ristrutturata”. Negli animi degli europei si fa largo una rischiosa tendenza a risolvere i propri problemi come singole nazioni, rinchiudendosi nei confini degli Stati. La paura del terrorismo e l’emergenza immigrazione, soprattutto, hanno contribuito a risvegliare questa esigenza di chiusura e sospetto. Chiudere le frontiere è un evidente retaggio del nazionalismo che si è conosciuto in passato. Un nazionalismo negativo che alla fine del secondo conflitto mondiale è stato abbandonato proprio in favore di apertura, cooperazione, integrazione e pace.

Dopo l’intesa con l’UE, il primo ministro Theresa May ha scritto una lettera ai suoi concittadini chiedendo loro di unirsi nel sostenere l’accordo, elencando uno a uno i motivi che nel 2016 portarono alla Brexit e ripetendo come un mantra: “Questo è ciò che l’accordo offre e questo è nel nostro interesse nazionale”.

In attesa dell’11 dicembredata scelta per il voto di ratifica da parte del Parlamento di Westminster dell’accordo di divorzio dall’UE sottoscritto a Bruxelles –, la May sta mettendo in atto una vera e propria campagna elettorale, facendo un tour da Nord a Sud, di città in città, sperando di recuperare quella maggioranza parlamentare necessaria a far passare l’intesa. Alla premier non resta che parlare di nuovo alla “pancia” del suo elettorato, facendo leva su uno dei temi più sentiti nell’opinione pubblica: il controllo dei flussi migratori.

Comunque andrà a finire, l’Europa, malgrado i suoi errori e debolezze, deve saper ripartire e riformarsi sulla base di quei valori che, in un passato non molto lontano, ne hanno ispirato la costituzione. L’Unione è e può essere ancora un faro in un mondo in cui dilaga sempre più violenza, odio, disumanità, nei confronti dei migranti, nei confronti delle donne, nei confronti dei più deboli. Odio e violenza imperano quando prevalgono pregiudizio, insicurezza, fragilità e disinformazione. Soluzioni diverse dal rifiuto e dalla chiusura appaiono impensabili. Manca il dialogo, manca una mano tesa – simile a quella che nel 1950 il ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, mettendo da parte pregiudizi e inimicizie storiche, offrì all’allora cancelliere tedesco, Konrad Adenauer, dando il primo impulso al processo di integrazione europea.

Prima di tutto, è necessario ri-partire dalle persone, perché il cuore della democrazia è la persona, così come il fondamento dell’Unione Europea è rappresentato dalla tutela e dalla promozione della democrazia e dello Stato di diritto e, soprattutto, dal rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo. Oltre agli scopi economici, oltre a una maggiore sicurezza, forse ciò che in primis deve tornare alla mente sono le atrocità causate dalle guerre che per lungo tempo hanno inciso sulla storia del nostro Continente. Ci si deve ricordare di un forte bisogno di umanità, che non ci si può permettere di dimenticare.

A cura di Ludovica Giannetti

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