Cooperazione internazionale per lo sviluppo: il sistema italiano

Il presente articolo è parte di un doppio approfondimento volto a delineare le coordinate dei sistemi italiano ed europeo di cooperazione internazionale per lo sviluppo. Per comprendere pienamente le finalità perseguite da questa peculiare branca della politica estera occorre, infatti, conoscerne preliminarmente i riferimenti storici e normativi.

Evoluzione storica e normativa della politica italiana di cooperazione allo sviluppo

Fino alla prima metà degli anni Cinquanta, l’Italia fu tra i Paesi destinatari delle politiche di aiuto allo sviluppo. In questa prima fase, i governi repubblicani si preoccuparono di assicurarsi risorse da investire sia nella ricostruzione, sia nello sviluppo del Mezzogiorno, attraverso canali bilaterali e multilaterali. Nella seconda metà del decennio, in coincidenza con l’avvio del miracolo economico, l’Italia abbandonava lentamente la condizione di nazione beneficiaria, maturando l’interesse a elaborare una politica di assistenza allo sviluppo con i Paesi del Terzo Mondo, per ragioni di carattere economico, legate all’accesso a nuove fonti di approvvigionamento di materie prime e alla necessità di garantirsi nuovi sbocchi per merci e manodopera, e politico, all’interno della logica della guerra fredda, al fine di limitare l’espansionismo sovietico nei Paesi in via di sviluppo (PVS). Nonostante la crescente attenzione nei confronti di tali Paesi, tuttavia, non si poteva parlare tanto di autentica politica di assistenza allo sviluppo, quanto più di una serie di iniziative, sostanzialmente slegate l’una dall’altra, che si muovevano in tal senso.

La politica italiana di cooperazione allo sviluppo, in effetti, non prese forma prima degli anni Sessanta, quando nuovi orientamenti culturali, maturati in seguito a rilevanti mutamenti interni e internazionali, contribuirono all’elaborazione di una nuova concezione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo. L’affermazione del terzomondismo, quale fenomeno culturale diffuso trasversalmente tanto nel mondo cattolico quanto in quello comunista, favorì l’adozione di numerosi testi normativi volti a disciplinare la materia della cooperazione internazionale per lo sviluppo. Tra di essi, particolare importanza rivestirono due leggi promosse dal politico democristiano Mario Pedini: la L. 1033/1966, istitutiva del servizio civile nei PVS in alternativa al servizio di leva, e la L. 1222/1971, finalizzata a disciplinare, per la prima volta, in maniera organica i vari aspetti della cooperazione allo sviluppo, fino ad allora oggetto di diverse leggi.

A partire dai primi anni Ottanta, si assistette a una progressiva politicizzazione della cooperazione ad opera di vari fattori, tra cui le pressioni provenienti dal mondo cattolico e dalle aree terzomondiste di varia ispirazione, la promozione di campagne contro la fame nel mondo, nonché le sollecitazioni dei poteri economici e delle imprese preoccupate del calo delle esportazioni verso i PVS, che consideravano l’aiuto pubblico allo sviluppo un importante strumento di penetrazione commerciale nei Paesi del Terzo Mondo. Per far fronte all’emersione di tali istanze, tramite l’adozione della L. 73/1985, venne istituito il Fondo Aiuti Italiano (FAI), costituito da 1.900 miliardi di lire da erogare in soli 18 mesi per interventi straordinari.

L’ultima fase dell’evoluzione legislativa interna in materia di cooperazione allo sviluppo si aprì alla fine degli anni Ottanta, con l’adozione della L. 49/1987, arrivando fino ai nostri giorni. Con tale intervento normativo, fortemente innovativo, vennero introdotti obiettivi sociali e umanitari nelle politiche di cooperazione, si evidenziò l’importanza delle logiche di sviluppo endogeno e, infine, venne sottolineato il ruolo delle autonomie locali e della società civile nel processo di sviluppo, nell’ambito della cd. cooperazione decentrata. L’attuale assetto normativo è disciplinato dalla L. 125/2014, recante la «Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo», la quale ha riformato integralmente il precedente assetto istituzionale della cooperazione allo sviluppo. In base alla L. 125/2014, la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la pace costituisce «parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia», modificando, secondo questa prospettiva, la denominazione stessa del Ministero degli Affari Esteri (MAE), che ha assunto il nome di Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI).

Il sistema italiano della cooperazione: istituzioni e soggetti

In base al tipo di attività svolte, siano esse di indirizzo politico, governo e controllo o operative, è possibile individuare i diversi attori istituzionali che costituiscono il sistema italiano della cooperazione allo sviluppo. La competenza in materia di indirizzo politico, governo e controllo spetta, in particolare, al MAECI e al vice ministro della cooperazione allo sviluppo, al Parlamento, al Comitato Interministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo (CICS), nonché al Consiglio Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo (CNCS); l’attività operativa, invece, fa capo all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e alla Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (DGCS).

La L. 125/2014, inoltre, individua i soggetti della cooperazione italiana allo sviluppo. Il principio di sussidiarietà – il quale caratterizza l’intero assetto istituzionale e, in via generale, richiede che, su una scala composta da più istituzioni, siano quelle più vicine ai destinatari dell’azione a occuparsi di soddisfarne i bisogni – trova applicazione anche nel sistema italiano della cooperazione, per cui quest’ultimo è caratterizzato dalla collaborazione tra soggetti pubblici e privati per la realizzazione dei programmi e dei progetti di cooperazione allo sviluppo. In base all’art. 23, i soggetti coinvolti in tali attività sono: le amministrazioni dello Stato, le università e gli enti pubblici; le regioni, le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti locali; le organizzazioni della società civile e altri soggetti senza fine di lucro, puntualmente individuati dall’art. 26; i soggetti con finalità di lucro, nel rispetto di determinate condizioni. In questo contesto, quindi, assumono un ruolo fondamentale le attività di cooperazione allo sviluppo svolte a livello regionale, provinciale o locale, il cd. partenariato territoriale, nonché la collaborazione con organizzazioni della società civile e altri soggetti senza fine di lucro e con soggetti con finalità di lucro.

Obiettivi e strumenti della cooperazione allo sviluppo

I principali obiettivi della cooperazione italiana allo sviluppo sono elencati all’art.1 della L. 125/2014, ove si precisa che essa deve tendere a: sradicare la povertà e ridurre le disuguaglianze, migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e promuovere uno sviluppo sostenibile; tutelare e affermare i diritti umani, la dignità dell’individuo, l’uguaglianza di genere, le pari opportunità e i principi di democrazia e dello Stato di diritto; prevenire i conflitti, sostenere i processi di pacificazione, di riconciliazione, di stabilizzazione post-conflitto, di consolidamento e rafforzamento delle istituzioni democratiche. Vengono elencate, quindi, alcune delle attività di cooperazione allo sviluppo volte a rafforzare le autonome risorse umane e materiali dei Paesi partner (art. 4, L. 125/2014): iniziative in ambito multilaterale; partecipazione ai programmi di cooperazione dell’Unione europea; iniziative a dono nell’ambito di relazioni bilaterali; iniziative finanziate con crediti in concessione; iniziative di partenariato territoriale; interventi internazionali di emergenza umanitaria; contributi a iniziative della società civile.

Tra gli strumenti della cooperazione allo sviluppo, il più importante è senz’altro rappresentato dall’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS), ossia il complesso degli aiuti forniti da organi pubblici, inclusi i governi statali e locali, ai PVS o alle istituzioni multilaterali, purché rispettino le seguenti condizioni: provenire dal settore pubblico; essere indirizzati a PVS; avere come obiettivo la promozione dello sviluppo economico e il benessere delle popolazioni dei Paesi riceventi; offrire condizioni finanziarie agevolate, aventi cioè un elemento di dono pari almeno al 25%. In base a tali requisiti, quindi, non può considerarsi APS l’assistenza militare. Dal 1° gennaio 2016, la Cassa Depositi e Prestiti S. p. A.  (CDP S. p. A) è l’istituzione deputata alla gestione dei fondi pubblici per le attività di cooperazione allo sviluppo, quali il Fondo rotativo per la cooperazione allo sviluppo, disciplinato per la prima volta dall’art. 26 della L. 227/1977, al finanziamento di soggetti pubblici e privati nei PVS, nonché a effettuare investimenti in fondi o fondi di fondi a supporto della crescita socio-economica dei Paesi target della cooperazione italiana. In altre parole, in quanto istituzione finanziaria per la cooperazione allo sviluppo e banca di sviluppo, con conseguente facoltà di operare in tutti i PVS, essa rappresenta lo snodo principale attraverso cui passano le risorse finanziarie da gestire.

Questo complesso quadro istituzionale, di cui abbiamo, in questa sede, appena accennato i lineamenti, si intreccia poi con le politiche di cooperazione allo sviluppo adottate a livello europeo e internazionale, creando un’articolata rete di attività finalizzate a garantire un adeguato sviluppo socio-economico su scala globale. Oggetto del prossimo articolo sarà il sistema europeo di cooperazione allo sviluppo, anch’esso, come quello interno, in costante evoluzione.

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