Democrazia e Stato di diritto sono due principi cardine nell’Unione Europea, enunciati espressamente all’art. 2 TUE, nell’ambito dei valori su cui si struttura il progetto comunitario.
Difatti, l’art. 2 non chiede agli Stati di conformarsi ai valori dell’UE, ma dispone che “questi valori sono comuni agli Stati membri”; è la constatazione di una base condivisa indefettibile. Si tratta di principi quali il “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto, [..] dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”.
L’art. 2 TUE riflette il fondamento assiologico dell’Unione, la struttura essenziale che accomuna tutti gli Stati membri, il parametro che ha consentito all’UE di definire – seppur, spesso, in negativo – ciò che è propriamente “europeo”.
Non a caso, sotto il profilo dell’azione esterna, nell’ambito della politica di enlargement, i citati principi assumono rilevanza già ai fini dell’apertura ufficiale dei negoziati di adesione. Difatti, gli Stati candidati devono dimostrare di aver raggiunto un livello di avanzamento tale da conformarsi ai criteri politici richiesti dall’Unione, che si circoscrivono, in questo ambito, nel rispetto della democrazia, dello Stato di Diritto e nella tutela dei diritti umani e delle minoranze.
Le posizioni illiberali assunte da alcuni Stati membri, oltre a rilanciare al centro del dibattito pubblico il tema del necessario rispetto dei valori dell’Unione, hanno messo in luce quello che, forse, potrebbe essere considerato un limite dell’attuale sistema comunitario, ossia l’assenza di un sistema di verifica permanente circa il rispetto dei valori su cui l’UE si fonda.
Ed infatti, se è vero che durante la procedura di adesione la Commissione si occupa di monitorare, con rigore quasi scientifico, il rispetto dei parametri politici negli Stati candidati – sebbene la decisione, formalmente assunta dal Consiglio europeo, abbia un carattere strutturalmente intergovernativo – è vero, altresì, che dopo l’ammissione sono del tutto assenti dei meccanismi permanenti atti alla verifica del rispetto, da parte di tutti i Paesi membri, dei valori stabiliti nel già citato articolo 2 TUE.
I casi di Polonia e Ungheria costituiscono un significativo banco di prova per l’Unione Europea, che, per riaffermare la sua identità e i suoi stessi valori, è chiamata ad opporsi con fermezza alle strutturali e sistematiche violazioni della democrazia e dello Stato di diritto che si sono verificate negli ultimi anni e che hanno determinato un deterioramento delle condizioni politiche negli Stati in esame.
Nei confronti di Polonia e Ungheria, infatti, le Istituzioni UE, dopo aver attivato i classici meccanismi sanzionatori previsti nell’ambito della procedura di infrazione – artt. 258 – 260 TFUE –, hanno deliberato l’avvio della procedura prevista dall’art. 7 TUE.
Nello specifico i Trattati, all’art. 7 TUE, descrivono una procedura volta a constatare e sanzionare ipotesi di violazioni – o minaccia – dei valori previsti all’art. 2; tuttavia, il carattere fortemente politico di tale meccanismo, che lascia ampio spazio alla discrezionalità degli Stati membri, ha finito per distorcere la ratio di questa disposizione, che mirava proprio a riaffermare la centralità dei principi politici nell’Unione Europea e, specularmente, l’importanza di una ferma opposizione contro qualsiasi atto che potesse violarli.
Nei confronti della Polonia la procedura di cui all’art. 7 TUE è stata avviata nel dicembre 2017, a causa delle riforme apportate al sistema giurisdizionale. Nell’ambito del nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto, la Commissione aveva più volte rivolto raccomandazioni alla Polonia, in seguito alle quali ha deciso di avviare la procedura ex art. 7, par.1 TUE, che prevede la pubblica constatazione di un “evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2”.
Più nello specifico, le preoccupazioni delle Istituzioni UE afferiscono all’indipendenza della magistratura. Per quanto concerne la Corte Suprema polacca è stato previsto un abbassamento dell’età pensionabile per i Giudici e si è conferita la facoltà, in capo al Presidente della Repubblica, di estendere temporalmente il loro mandato; quanto ai Tribunali ordinari, invece, tale competenza è stata attribuita al Ministero della giustizia, in chiara e manifesta violazione dei principi su cui si è strutturato, nel diritto dell’UE, il concetto di Stato di diritto. Ed ancora, appare violato, in relazione alle sopracitate riforme, il principio di uguaglianza di genere, posto che le soglie per l’età pensionabile si differiscono in base al sesso.
Il nuovo regime disciplinare che opera nell’ambito giurisdizionale, inoltre, desta alcune perplessità: difatti è possibile sottoporre a procedimento i giudici ordinari, in base al contenuto delle decisioni giudiziarie che hanno assunto, con conseguente violazione del principio di indipendenza della Magistratura, stante, peraltro, la composizione della Sezione disciplinare della Corte suprema, formata interamente da Giudici scelti dal Consiglio nazionale della Magistratura, la cui nomina ha matrice parlamentare.
Appare chiaro, dunque, anche alla luce delle specifiche caratteristiche che hanno assunto i concetti di Stato di diritto e di democrazia nell’ordinamento dell’Unione Europea – concetti che si sono sviluppati mediante l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia e della Corte EDU, ma anche grazie all’operato delle Istituzioni UE, che hanno agito in via di prassi – come tali modifiche violino il cuore pulsante della democrazia e dello Stato di diritto, che, in questo contesto, impongono che sia garantita l’autonomia, l’imparzialità e l’inamovibilità della Magistratura.
Nel settembre 2018, il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione con la quale è stato invitato il Consiglio ad avviare la medesima procedura, ex art. 7 TUE, nei confronti dell’Ungheria. In relazione a quest’ultima ipotesi, più nel dettaglio, il Parlamento ha espresso preoccupazioni con riguardo, soprattutto, all’indipendenza della magistratura, alla struttura e al funzionamento del sistema costituzionale ed elettorale, alla libertà di espressione e associazione, alla riservatezza, alla libertà religiosa e ad altri diritti e libertà propri di ogni ordinamento democratico. La situazione ungherese, peraltro, sembra essere ulteriormente peggiorata in seguito alle riforme adottate per il contrasto al Covid-19; misure che presentano un carattere apertamente illiberale e antidemocratico e che sono state condannate – seppur senza un espresso riferimento – lo scorso 31 marzo, durante il discorso tenuto dalla Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. La legge approvata dal Parlamento ungherese lo scorso 30 marzo, infatti, detta delle misure che conferiscono poteri straordinari in capo al Governo che, mediante lo strumento del decreto, può derogare alla legge, senza, tuttavia, fissare un termine entro cui dette disposizioni devono considerarsi applicabili. Desta preoccupazione, inoltre, la sospensione delle elezioni e di ogni forma di referendum, nonché l’introduzione della fattispecie di reato di “inadempimento del controllo epidemico”, volto a sanzionare chiunque diffonda false notizie che possano causare turbamento o intralciare l’efficacia delle misure general-preventive adottate dallo Stato, con conseguente compromissione della libertà di espressione e informazione.
Il 16 gennaio scorso, il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione con la quale ha sottolineato l’assenza di progressi significativi in Polonia e Ungheria, in seguito all’attivazione dell’art. 7, par. 1, TUE. Più nello specifico, il Parlamento ha sottolineato: «l’incapacità del Consiglio di applicare efficacemente l’articolo 7 TUE [che] continua a compromettere l’integrità dei valori comuni europei, la fiducia reciproca e la credibilità dell’Unione nel suo complesso».
Ad oggi, il Consiglio ha svolto esclusivamente alcune audizioni formali con questi due Stati – tre per la Polonia e due per l’Ungheria –, ma non ha ancora provveduto ad adottare alcuna raccomandazione. L’unica misura sino ad ora convenuta, difatti, attiene all’applicazione dell’art. 7 par. 1 TUE, circa la modalità standard di trattazione delle audizioni. Il Parlamento ha sottolineato, tuttavia, come queste audizioni non consentano la partecipazione dello stesso Parlamento – pur trattandosi, si ricordi, dell’unica istituzione democraticamente eletta nel contesto comunitario – e come tali audizioni non siano organizzate in modo “regolare, strutturato e aperto”.
Alla luce delle argomentazioni esposte, traspare come la tutela dei valori fondanti dell’Unione resti principalmente affidata alla Commissione, al Parlamento e alla Corte di Giustizia; il Consiglio e il Consiglio europeo, difatti, sembrano continuare a perseguire delle logiche securitarie e intergovernative che rischiano di condurre ad un’inefficiente azione dell’UE e, in definitiva, ad una compromissione dei suoi stessi valori.
Sotto questo profilo, come anche evidenziato dal Parlamento europeo, i casi di Polonia e Ungheria suggeriscono la necessità di adottare un sistema di verifica e controllo diverso, che non subisca l’inerzia dovuta al carattere fortemente politico della procedura prevista all’art. 7 TUE, a fortiori in assenza di un meccanismo permanente che monitori l’operato degli Stati membri.
Per questa ragione, forse, appare auspicabile proprio la creazione di detto meccanismo permanente di controllo, che monitori il rispetto, da parte degli Stati membri, dei principi di cui all’art.2; procedura che potrebbe sostanziarsi in una verifica annuale, basata su riscontri oggettivi e non discriminatori, che miri a valutare il rispetto dei valori fondanti dell’UE su un piano di assoluta parità tra tutti gli Stati membri e che, forse, potrebbe consentire di rilanciare e riaffermare con fermezza la centralità dei principi politici nell’attuale assetto comunitario.