Is Migrant Despair Europe’s Only Hope?

Relatore al convegno presso centro studi americano
OGIE
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Il 14 marzo, presso il Centro Studi Americani di Via Michelangelo Caetani 32, ha avuto luogo il dibattito “Is Migrant Despair Europe’s Only Hope?”, in occasione del centenario della fondazione della Biblioteca. L’incontro ha visto la partecipazione di Nicholas Zahariadis, professore di International Studies dell’Università dell’Alabama; la moderazione è spettata a Marco Ventura, giornalista de “Il Messaggero”.

Nel 2016, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), circa 66 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare il proprio Paese d’origine. Di queste, 22.5 milioni erano rifugiati[1]. «Sei volte la popolazione di Roma», come ha fatto notare Zahariadis. Ma è corretto utilizzare una sola parola per definirli?

È necessario distinguere queste persone sulla base delle loro condizioni e delle loro motivazioni; bisogna, quindi, parlare di migranti, rifugiati, profughi e richiedenti asilo[2]. Quali sono le differenze? Per molti non esistono: vengono tutti considerati immigrati (migranti irregolari, per utilizzare la terminologia della Carta di Roma), sia che si tratti di rifugiati, di richiedenti asilo o di profughi. Perché è quello che si vede sui giornali, in televisione; è quello che si sente andando in giro, entrando in un bar. I media trattano questo argomento quotidianamente, da quando il flusso migratorio è aumentato vertiginosamente. La maggior parte di queste persone, come ha sottolineato Zahariadis, scappa dal Nord Africa, dall’Asia Minore ma non si dirige esclusivamente in Europa, come si potrebbe pensare. Si sposta nei paesi confinanti: Turchia, Libia, Afghanistan. Si sposta lì perché nutre la speranza di tornare a casa. «C’è l’idea che abbiamo troppi arrivi» e di porre un freno a questo flusso. Magari come Trump che ha portato il tetto massimo di rifugiati da 110 a 50 mila[3].

È vero, siamo colpiti da un flusso migratorio continuo, che stenta a fermarsi. «La Grecia nel 2015 era la prima terra di sbarco». Le isole greche sono vicine alla Turchia e al Medio Oriente. I tratti marittimi in quelle aree sono facili da attraversare; e, alla fine, alcune di queste isole sono arrivate a ospitare più del doppio delle persone che potevano contenere. La risposta dell’Unione Europea è quella di gestire il flusso riducendolo. Ma se una persona è intenzionata ad andarsene lo farà comunque, anche se la via è pericolosa. Cercare di ridurre il flusso «non affronta la questione vera: il perché».

I migranti si trovano in un «limbo» una volta usciti dal confine, poiché non appartengono più a una nazione e hanno difficoltà a integrarsi in quella in cui arrivano. A volte non arrivano da nessuna parte. Alcuni paesi dell’Europa orientale, come l’Ungheria, costruiscono muri anti-migranti[4]. «Quali sono le differenze tra queste due immagini?» ha chiesto Zahariadis, mostrando sullo schermo un’immagine della barriera di separazione ungherese e una del muro di Berlino.
Ovviamente gli Stati europei non percepiscono allo stesso modo i migranti. Molti di questi, come ha fatto notare il professore, sono di religione musulmana. «I paesi del Nord sono più favorevoli ai musulmani, rispetto ai paesi dell’Est e del Sud che li accolgono per primi»[5]. È facile moralizzare, se lontani. Anche perché: «se apri gli occhi e non li vedi, non esistono».

L’intervento di Zahariadis ha suscitato l’interesse del pubblico e del moderatore Ventura che, introducendo il dibattito ha chiesto da cosa derivi l’errata percezione sull’immigrazione.

«Spesso dal razzismo. È facile dire “Non vi vogliamo qui”, perché è più sicuro. La Politica usa questi pregiudizi e sono spesso i movimenti e i partiti di destra a farlo». C’è una percezione errata che spesso spinge a collegare l’immigrazione alla criminalità. «Si pensa che se il tasso di immigrazione aumenta, lo farà anche il tasso di criminalità. Ho letto studi che affermano che la criminalità aumenta per cause economiche. Ma è lecito pensare il contrario. Sicuramente c’è un legame».

Molto spesso, ha continuato Zahariadis, si utilizza la disperazione dei migranti, non per presentare il fenomeno nella sua realtà, ma a fine propagandistico. In questo modo il despair diventa un’arma nelle mani dei politici. È più facile, infatti, far passare il messaggio che un fenomeno evidentemente incontrollabile possa essere gestito solo attraverso approcci estremi e di chiusura: come se la rigidità, la severità fosse la strategia vincente per arginare il problema. Tuttavia, usare la sensazione di despair non è altro che un palliativo, una percezione momentanea di azione che presume di essere efficace, sebbene non faccia che esacerbare ulteriormente i rapporti intersociali. La chiusura è solo una strategia politica» populista, ma soprattutto «una ulteriore violazione delle loro condizioni, e ciò non porta a un effettivo cambiamento. I migranti non hanno voce; non l’hanno perché molti di loro sono entrati illegalmente e solo per questo non ci interessano davvero». È più facile per i politici assecondare tali spinte dal popolo, non è poi il popolo stesso a esprimere il proprio voto?
«Sarebbe bello se i nostri politici fossero onesti. Purtroppo non sembra accadere. Parte del problema è che mentire è più facile e molti cittadini non vogliono sapere nulla perché vogliono avere la coscienza pulita. I politici sono il riflesso delle preferenze popolari».

I pregiudizi di cui ha parlato Zahariadis esistono da sempre. Nascono da opinioni precostituite, da giudizi che possono derivare da convinzioni di carattere storico-culturale o personale. Si generano in maniera involontaria. Ipotizziamo di incontrare per strada una persona trascurata, con dei vestiti strappati e non troppo puliti, che utilizza un iphone. La prima domanda che sorge spontanea, a causa dei pregiudizi, è “Dove ha rubato quel cellulare?”. Potrebbe averlo o non averlo rubato. Non è ciò che ci interessa stabilire. Al contrario, ciò che qui ci preme sottolineare è l’attivazione automatica e istintiva di un frame[6], di una sceneggiatura. I vestiti strappati e sporchi indicano povertà; l’iphone benessere economico: due concetti tra loro opposti che ci portano a chiederci come faccia una persona povera a possedere un oggetto così costoso.
Quotidianamente apprendiamo da un certo tipo di programmi che i migranti sono persone non affidabili o dei criminali; questo incide inevitabilmente sulle nostre sceneggiature. È la disinformazione, quindi, l’ostacolo da superare. Se i media trasmettono con maggior frequenza fatti di cronaca nera in cui i protagonisti sono migranti, saremo portati automaticamente ad associare a tutti i migranti l’etichetta di criminali. Per questo, dobbiamo andare oltre i media, oltre le notizie, oltre i pregiudizi, oltre le sceneggiature.
A cura di Marika Preziosi e Lorenzo Maria Lucenti


[1] Anonimo, “Nel 2016 il numero più elevato di sempre di persone costrette a fuggire da guerre, violenze e persecuzioni”, UNHCR – The UN Refuge Agency, 19 giugno 2017, https://www.unhcr.it/news/nel-2016-numero-piu-elevato-sempre-persone-costrette-fuggire-guerre-violenze-persecuzioni.html.
[2] ILLA Convenzione di Ginevra, firmata nel 1951, ha una definizione dello status di rifugiato. Questa definizione, come anche altre, sono state adottate anche dalla Carta di Roma (Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti) del 12 giugno 2008: http://www.immigrazione.biz/upload/carta_di_roma.pdf.
[3] L’Ordine Esecutivo citato è il numero 13769 del 27 gennaio 2017, il così detto “Muslim ban” o “Travel ban”.
[4] Steinmann, Luca, “Così il muro anti migranti dell’Ungheria mette nei guai l’Europa. Che continua a litigare”, L’Espresso, 16 settembre 2015, http://espresso.repubblica.it/internazionale/2015/09/16/news/finito-il-muro-anti-migranti-in-ungheria-e-ora-i-profughi-da-dove-passeranno-1.229698.
[5] Aa.Vv., “Europeans Fear Wave of Refugees Will Mean More Terrorism, Fewer Jobs”, Pew Research Center, 11 giugno 2016, pag. 4, http://www.pewglobal.org/files/2016/07/Pew-Research-Center-EU-Refugees-and-National-Identity-Report-FINAL-July-11-2016.pdf.
[6] Traini, Stefano, Le base della Semiotica, 1° ed., Vignate (MI), Giunti Editore S.p.A., ottobre 2017, p.211 (M. M. Minsky, “A Fremework for Representing Knowledge”, in Winston P.H. (ed.), The Psychology of Computer Vision, McGraw-Hill, New York).

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