A ormai quasi sessant’anni dall’evento storico della firma dei Trattati di Roma, guardare avanti «con responsabilità verso noi stessi, verso i più deboli di oggi, verso le generazioni future e, perché no, anche con un po’ di rispetto verso i tanti europei che hanno dato la propria vita per il progetto europeo» è l’invito che Giovanni Ferri, professore di European Values in the Global Economy, International Economics e Macroeconomia presso la Libera Università Maria Ss. Assunta (LUMSA) di Roma, ha rivolto anche agli studenti dell’Osservatorio Germania-Italia-Europa (OGIE) nel corso del primo dei tre workshop del ciclo Europa: che fare? Ripensare l’Unione a 60 anni dai Trattati di Roma, svoltosi lo scorso 28 febbraio in videoconferenza tra Palermo e Roma.
I workshop, organizzati dall’OGIE in collaborazione con la LUMSA e la Rappresentanza in Italia della Konrad-Adenauer-Stiftung e incentrati su tre pilastri – economia, sovranità-leadership e immigrazione -, si propongono di fornire ai giovani membri dell’Osservatorio gli strumenti e le informazioni necessarie per l’elaborazione di una proposta di rilancio dell’Unione europea, che verrà presentata il 27 aprile prossimo nel corso di una conferenza presso il Dipartimento di Palermo dell’Università LUMSA. Non solo: nel tentativo di contrastare il dilagante fenomeno della post-verità oltre che il diffondersi dell’euro-scetticismo e dell’anti-europeismo, questi workshop mirano anche a mettere in contatto gli studenti – universitari e non – con interlocutori credibili e autorevoli cui poter rivolgere le proprie domande e manifestare le proprie perplessità.
Al centro della discussione di martedì scorso l’analisi delle possibili cause della crisi dell’Euro e dell’Eurozona, oltre ai potenziali esiti che due eventi recenti dovuti a «pronunciamenti popolari di pancia» – la Brexit e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America – potrebbero avere sul progetto europeo. Due i possibili scenari futuri immaginati dal professor Ferri: da una parte l’accelerazione verso gli Stati Uniti d’Europa, «un futuro difficile, ma possibile»; dall’altra la disintegrazione «e il ritorno agli Stati nazionali, con gravissime conseguenze per tutti gli europei, in particolare per i più giovani». In questo secondo caso, sia la Brexit che Mr. Trump saranno – a detta del professore della LUMSA – semplici «acceleratori di qualcosa che era già in essere. Dovesse verificarsi, la disgregazione dell’Europa sarà imputabile, infatti, a una implosione dall’interno, a una incapacità politica di arrestarla».
«Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi del modello economico occidentale in cui, se l’Unione europea non implode, il Vecchio continente rischia comunque di trasformarsi da dominatore dello scenario economico mondiale a potenza marginale. In caso contrario, il peso dell’Europa – o meglio dei singoli Stati che la compongono – diverrebbe del tutto irrilevante», ha asserito il professore proprio all’inizio del suo intervento. Ad avvalorare questa sua affermazione, le proiezioni al 2030 sulla distribuzione percentuale del PIL mondiale di Andrew Mold. Secondo lo studioso dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), nel 2030 il pendolo dell’economia mondiale si sposterà, infatti, verso l’Asia, in particolare, verso la Cina, che arriverebbe a pesare per il 28% del PIL, esattamente il doppio degli USA (14%). Nella lista di Mold l’Europa si posizionerebbe solo al quarto posto con una percentuale dell’11%, poco al di sotto dell’India (11,3%). «Il mondo è cambiato drasticamente e sta cambiando in una maniera che marginalizza l’Europa». Quale, quindi, il ruolo dell’Unione europea in uno scenario caratterizzato dallo «spostamento da un approccio collaborativo a uno di dominio velleitario» da parte statunitense e in cui gli equilibri tenderanno sempre più a muoversi verso «la parte più pulsante del mondo in termini economici» – ovvero l’Asia? «L’Europa deve guardare alla Cina, pur con tutti i problemi che possono sorgere a colloquiare con un regime che non è democratico, ma che è in grado di favorire la stabilità e può rappresentare un grande contrappeso alla “maionese impazzita” che ci viene dagli USA e dalla Brexit», ha replicato il prof. Ferri alla domanda di uno dei giovani studenti di Palermo. Facendo riferimento al recente viaggio in Cina del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, il professore ha aggiunto: «Una decisione molto saggia. Come saggio è stato anche il suo invito a perseguire un governo globale che sia inclusivo, collaborativo e non asimmetrico».
Con l’introduzione dell’Euro si pensò «di aver fatto l’Unione». Ci si aspettava che la moneta unica favorisse e facilitasse l’attivazione di «meccanismi di convergenza», così da consentire ai Paesi periferici (più deboli) di rafforzarsi e avvicinarsi a quelli più forti; soprattutto, si sperava che la creazione di «un mercato più ampio e profondo» portasse un aumento della crescita economica, generando, al contempo, bassi tassi di disoccupazione. I dati e gli avvenimenti degli ultimi anni dimostrano, tuttavia, come questi obiettivi siano stati ampiamente disattesi. È accaduto «l’esatto opposto di ciò che sarebbe dovuto accadere»: non solo «si sono intensificati i meccanismi di divergenza», con il risultato che i Paesi “core” hanno registrato un ulteriore rafforzamento a scapito di quelli più deboli; ma anche in termini di PIL e di bassa disoccupazione, i risultati non sono stati assai migliori. Dopo il «bleep al ribasso» in corrispondenza della crisi del 2008, rispetto agli USA, l’Eurozona non è ritornata a crescere (nel 2016 ha registrato un PIL pari all’1,7%, di contro al 2,2% degli Stati Uniti); e le performance del tasso di disoccupazione non sono state migliori: pur essendosi abbassato nella fase precedente la crisi finanziaria mondiale, il tasso è infatti risalito al 12%, attestandosi al 9,6% a gennaio 2017, «con un’enorme asimmetria tra Paesi del Nord e Stati periferici» (si vedano i dati Eurostat: Grecia (23%), Spagna (18,2%), Cipro (14,1%), Italia (11,9%), Germania (3,8%). E a farne le spese maggiori – ha evidenziato il prof. Ferri – sono soprattutto i giovani «che vivono un profondo malessere perché impossibilitati a fare piani per il futuro».
Tale situazione è sicuramente la conseguenza di «inadeguatezze istituzionali e di mercato» (shock asimmetrici, scarsa mobilità dei lavoratori e insufficiente flessibilità dei salari) proprie dei Paesi membri, in taluni casi persino precedenti all’introduzione della moneta unica. Tuttavia, a questi «fattori di fondo» si sono aggiunte politiche macroeconomiche inadeguate, incompletezze istituzionali (Unione bancaria) e, non da ultimo, «scelte nefaste e controproducenti» (austerità fiscale) che, compiute nel bel mezzo di una crisi, sono andate a minare «le basi del consenso sociale», spingendo molti cittadini «a sviluppare disamore per l’Ue». «È stato un grande e grave errore far prevalere l’impostazione economico-tecnocratica su quella sociale e umana: queste due dimensioni non possono e non devono essere disgiunte nel progetto europeo», ha rilevato il professor Ferri. Un invito al recupero di un’Europa sociale che è risuonato anche nelle parole del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, nel corso della conferenza a quattro tenutasi lo scorso 6 marzo a Versailles: «Abbiamo bisogno di un’Europa sociale, che guardi alla crescita e agli investimenti», ha osservato Gentiloni, «Un’Europa in cui chi rimane indietro non consideri l’Ue come una fonte di difficoltà ma come una risposta alle proprie difficoltà».
«Vorrei dire che oggi i problemi non finiscono ma cominciano. La Comunità economica europea non viene infatti alla luce come una macchina i cui congegni e i cui movimenti siano tutti prestabiliti. Essa sarà il frutto della nostra volontà, del nostro coraggio, della nostra chiaroveggenza e della nostra capacità di sacrificio. […] Dobbiamo guardare avanti e non indietro, a ciò che è possibile e necessario fare insieme […]». Con queste parole il 25 marzo del 1957 l’allora ministro degli Esteri, Gaetano Martino, salutava l’«opera nuova e importante» della firma dei Trattati di Roma.
«Ex malo bonum», diceva Sant’Agostino, convinto che il male e le difficoltà non debbano necessariamente generare altro male. Forse questo detto latino potrebbe diventare il mantra di quello che, nel Libro Bianco sul futuro dell’Europa,il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha definito il «nuovo capitolo» dell’Unione europea da aprire a Roma il 25 marzo prossimo.
A cura di
Silvia Bruno
PH. Generoso Rosati