Sono passati già sette mesi da quando, il 23 giugno, il popolo britannico ha votato per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e probabilmente è il momento di fare un primo bilancio, per capire ciò che fino a ora è cambiato in Gran Bretagna, all’indomani del fatidico Leave.
Innanzitutto è cambiato il Primo Ministro: dopo le dimissioni di David Cameron è subentrata Theresa May, secondo premier donna del Regno Unito. L’ascesa della May è avvenuta un po’ a sorpresa, a seguito dei passi indietro fatti dagli altri candidati alla successione, come Boris Johnson, Micheal Gove e Andrea Leadsom. Di sicuro, il lavoro che il nuovo primo ministro si è trovata davanti è stato tutt’altro che facile, tra continue proteste in piazza contro la Brexit, un partito conservatore più diviso che mai tra chi era a favore dell’uscita dall’UE e chi – come la stessa May – era per il Remain, e con la Scozia (che ha votato in massa per il Remain) già pronta a un secondo referendum per l’indipendenza, dopo quello del 18 settembre 2014. Tuttavia la neo-premier ha mostrato da subito di avere le idee chiare, ribadendo che “Brexit significa Brexit”, confermando quindi l’intenzione del Governo inglese di rispettare i risultati del referendum e promettendo che le negoziazioni ufficiali sarebbero iniziate entro l’anno nuovo.
E infatti proprio pochi giorni fa, il 17 gennaio, Theresa May ha tenuto un attesissimo discorso che avrebbe dovuto presentare ufficialmente il piano del Governo britannico per uscire dall’Unione europea. In realtà, il discorso della premier ha risposto ad alcune domande, ponendone però di nuove. Il punto cruciale è stata la conferma definitiva che il Regno Unito non rimarrà nel Mercato Unico Europeo. La permanenza o meno della Gran Bretagna nel MEC è stata una delle maggiori fonti di dibattito nei mesi scorsi.
L’intenzione del Governo britannico era quella di potervi rimanere, in questo caso, però, la Gran Bretagna avrebbe dovuto accettare lo status di “paese associato” dell’Ue e sottostare comunque alle regolamentazioni dell’Unione, senza però avere voce in capitolo. Questo avrebbe significato accettare le condizioni sulla libera circolazione delle persone previste dall’Ue, ipotesi inammissibile per la May, il cui programma si basa proprio sul controllo dell’immigrazione europea e sul non dover più rispondere alle decisioni della Corte di Giustizia europea. La May si è trovata quindi a dover fare una scelta quasi obbligata: uscire dal Mercato Unico Europeo o accettare queste imposizioni. Alla fine la scelta è ricaduta ovviamente sulla rinuncia al MEC, sebbene la premier abbia comunque espresso la volontà di negoziare un accordo commerciale bilaterale con l’Ue, basato su buoni rapporti tra le parti. Altro punto importante: la questione sullo status giuridico dei cittadini membri dell’Ue che attualmente lavorano e vivono nel Regno Unito: questa volta sia da parte della May che da parte dell’Unione europea è stata espressa la volontà di raggiungere un accordo che possa accontentare tutti.
Tutti sembrano aver apprezzato la decisione sull’esclusione dal MEC, con i 27 Stati membri dell’Ue pronti ad ascoltare i termini del negoziato e le proposte per questo eventuale accordo commerciale. Tuttavia Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, ha sottolineato che, pur essendo grato alla May per i chiarimenti forniti, «non basta un discorso per far partire i negoziati»; ha poi aggiunto che sarà disposto a «fare di tutto per assicurare che le negoziazioni si svolgano secondo le regole e producano buoni risultati».
Il Regno Unito avrebbe intenzione di far partire subito i negoziati per l’accordo commerciale, mentre l’Ue vorrebbe aspettare che si concluda la trattativa sulla separazione. Questo potrebbe portare a una dilatazione delle tempistiche e potrebbero quindi volerci più dei 2 anni previsti dai trattati per vedere la Gran Bretagna fuori dall’Europa.
Oltretutto non è ancora stato chiarito nulla riguardo l’accordo commerciale auspicato dalla May. La volontà del premier sembra quella di raggiungere un accordo commerciale personalizzato per l’UK, al fine di non penalizzare le industrie britanniche, le quali ritengono fondamentali i rapporti costituitisi con gli altri 27 Paesi membri dell’Ue. Per di più la May ha dichiarato che, nel caso di una mancata stipulazione di un accordo commerciale, Londra sarebbe disposta a ricorrere al dumping fiscale e sociale, riducendo le imposte sulle imprese e la protezione dell’impiego. Di certo l’ipotesi di un paradiso fiscale appena fuori dai confini dell’Unione non può far star tranquilli i leader europei.
La premier britannica ha infine confermato la volontà di attivare entro la fine di marzo l’articolo 50 del Trattato di Lisbona (quello che decreta l’inizio delle pratiche per l’uscita dall’Ue di un Paese membro), ma ha anche detto che il Parlamento britannico avrà l’ultima parola sugli accordi che verranno formulati tra il Governo e l’Unione. Oltretutto è notizia recente che l’ambasciatore britannico presso l’Unione europea, Ivan Rogers, ha presentato le dimissioni. Rogers avrebbe dovuto chiaramente avere un ruolo chiave nei negoziati e le sue dimissioni non facilitano di certo il lavoro della May. Intanto oggi la Suprema Corte britannica ha confermato la sentenza dello scorso dicembre dell’Alta Corte: il Parlamento inglese dovrà autorizzare «la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’avvio dei negoziati con l’Ue per la Brexit».
In definitiva, sono state poste delle buone basi per l’avvio dei negoziati, ma la strada per una separazione pacifica sembra ancora lunga e tortuosa.
A cura di
Riccardo Valle