Non è necessaria una delibera assembleare per l’installazione di telecamere nelle parti comuni dell’edificio, pertanto si può procedere alla loro installazione in un condominio per ragioni di sicurezza, anche senza il consenso di un inquilino. Così hanno stabilito i giudici della Terza Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza relativa alla causa C-708/18, TK c. Asociaţia de Proprietari bloc M5A-ScaraA, dello scorso Dicembre, sancendo così un importante principio di diritto, secondo cui gli impianti di videosorveglianza installati nelle aree comuni degli edifici, qualora il fine sia quello di perseguire legittimi interessi consistenti nel garantire la sicurezza e la tutela delle persone e dei beni, non necessitano di autorizzazione da parte dell’assemblea a patto che vengano rispettati tutti i requisiti previsti dall’artt. 6, par. 1, lett. c), e 7 lett. f), della direttiva 95/46/CE contemperati dai principi sanciti nella Carta di Nizza (artt. 7 e 8).
TK risiede in un appartamento, di sua proprietà, situato nell’immobile M5A. Su richiesta di alcuni comproprietari di tale immobile, il condominio ha approvato l’installazione di telecamere di sorveglianza nell’immobile stesso. Nel caso C-708/18, sottoposto alla cognizione della Corte, l’impianto di videosorveglianza era stato installato dall’associazione dei condomini di un immobile situato in Romania, per garantire e tutelare le persone e le parti comuni di un edificio, senza previo consenso dell’assemblea condominiale. Ad opporsi e chiederne la rimozione, invece, un condomino (TK) che lamentava la violazione del diritto al rispetto della vita privata. L’associazione dei condomini eccepiva, di contro, che l’installazione del sistema di videosorveglianza si era reso necessario per tutelare i beni comuni, stante l’inefficacia degli altri sistemi di sicurezza in precedenza utilizzati. Il Tribunale rumeno, chiamato a dirimere la controversia, ha deciso di sospendere il giudizio chiedendo alla Corte -tramite rinvio- chiarimenti sulla corretta applicazione della disciplina europea in materia di videosorveglianza. In particolare, la Corte ha esaminato le norme contenute negli artt. 6, par. 1, lettera c), e 7, lettera f), della direttiva 95/46/CE, previgente all’attuale GDPR, applicabili al caso di specie. La decisione della Corte risulta rilevante, nonostante il mutato quadro normativo, perché le predette disposizioni sono state recepite anche dal GDPR e trasposte negli articoli 5, co. 1, lett. c e 6, co. 1, lett. f.
La Corte di giustizia UE parte da un assunto importantissimo da cui si sviluppano i motivi della decisione. Secondo i giudici europei: “un sistema di videosorveglianza mediante telecamere deve essere qualificato come trattamento di dati personali automatizzato, ai sensi della disposizione sopra citata, qualora il dispositivo installato permetta di registrare e di stoccare dati personali, come delle immagini che consentano di identificare delle persone fisiche. Incombe al giudice del rinvio verificare se il sistema controverso nel procedimento principale presenti caratteristiche siffatte”.
Ne consegue che, per poter essere considerato legittimo, un trattamento di dati personali deve rispettare tre condizioni cumulative:
- in primo luogo, il perseguimento di un legittimo interesse da parte del responsabile del trattamento oppure da parte del terzo o dei terzi cui vengono comunicati i dati;
- in secondo luogo, la necessità del trattamento dei dati personali per la realizzazione del legittimo interesse perseguito
- in terzo luogo, l’esigenza che i diritti e le libertà fondamentali della persona interessata dalla protezione dei dati non prevalgano sul legittimo interesse perseguito (sul punto, CGUE, sentenza del 4 maggio 2017, Rīgas satiksme, C13/16, EU:C:2017:336, p.28).
Occorre sottolineare che l’articolo 7, lettera f), della direttiva 95/46 non esige il consenso della persona interessata. Tale consenso figura nondimeno, quale condizione cui è subordinato il trattamento dei dati personali, unicamente all’articolo 7, lettera a), di detta direttiva.
Quanto alla terza condizione fissata all’articolo 7, lettera f), della direttiva 95/46, relativa all’esistenza di diritti e di libertà fondamentali della persona interessata dalla tutela dei dati, i quali prevarrebbero sul legittimo interesse perseguito dal responsabile del trattamento dei dati ovvero dal terzo o dai terzi cui i dati vengono comunicati, occorre ricordare, come si è già menzionato al punto 32 della presente sentenza, che la valutazione di tale condizione impone di effettuare una ponderazione degli opposti diritti e interessi in gioco sulla base delle circostanze concrete dello specifico caso in questione, nell’ambito della quale si deve tener conto dell’importanza dei diritti della persona interessata risultanti dagli articoli 7 e 8 della Carta.
Sono pertinenti ai fini della ponderazione suddetta le ragionevoli aspettative della persona interessata a che i propri dati personali non vengano trattati qualora, nelle circostanze del caso di specie, detta persona non possa ragionevolmente attendersi un successivo trattamento dei dati stessi. Invero, secondo i giudici europei: “si deve segnatamente tener conto della natura dei dati personali [trattati], e in particolare della loro natura eventualmente sensibile, nonché della natura e delle modalità concrete del trattamento dei dati di cui trattasi, in particolare del numero di persone che hanno accesso a tali dati e delle modalità di accesso a questi ultimi –nonché valutare– le ragionevoli aspettative della persona interessata a che i propri dati personali non vengano trattati qualora, nelle circostanze del caso di specie, detta persona non possa ragionevolmente attendersi un successivo trattamento dei dati stessi”.
Infine, tali elementi devono essere messi in bilanciamento con l’importanza, per l’insieme dei comproprietari dell’immobile in questione, del legittimo interesse perseguito nella specie mediante il sistema di videosorveglianza di cui trattasi, là dove quest’ultimo mira essenzialmente a garantire la tutela dei beni, della salute e della vita dei suddetti comproprietari. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, occorre rispondere alle questioni sollevate dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, lettera c), e l’articolo 7, lettera f), della direttiva 95/46, letti alla luce degli articoli 7 e 8 della Carta, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a disposizioni nazionali, le quali autorizzino la messa in opera di un sistema di videosorveglianza, installato nelle parti comuni di un immobile ad uso abitativo, al fine di perseguire legittimi interessi consistenti nel garantire la sicurezza e la tutela delle persone e dei beni, senza il consenso delle persone interessate, qualora il trattamento di dati personali effettuato mediante il sistema di videosorveglianza in parola soddisfi le condizioni enunciate nel succitato articolo 7, lettera f), aspetto questo la cui verifica incombe al giudice del rinvio.
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